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Il matrimonio super blindato di Andrea Belotti e Giorgia Duro

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L'attaccante del Torino e la sua compagna si sono sposati nella chiesa di San Francesco di Paola a Palermo giovedì 15 giugno. Il matrimonio è stato all'insegna dell'eleganza e in stile Ottocento

Andrea Belotti e Giorgia Duro si sono sposati giovedì 15 giugno alle 17 nella chiesa di San Francesco di Paola a Palermo.

L'attaccante del Torino ha scelto come testimoni il fratello Manuel e l'amico Luca, mentre Giorgia ha voluto al suo fianco il fratello Giuseppe e l'amica Federica. Alle 17 Belotti e Giorgia Duro si sono giurati amore eterno davanti a centinaia di invitati e anche davanti agli occhi indiscreti di qualche curioso.

Il matrimonio super blindato è stato all'insegna dell'eleganza e del fasto dell'Ottocento. Andrea e sua moglie hanno scelto di mantenere segreta la data delle loro nozze per evitare la ressa dei fotografi. E per scongiurare qualsiasi fuga di notizie, si sono muniti di ombrelli bianchi in modo da proteggere la privacy del giocatore e della sua futura moglie. Giorgia, poi, era nascosta anche da una mantella con cappuccio bianco simile a un saio.

Ma nonostante tutte le precauzioni del caso, i paparazzi sono riusciti ad immortale la giornata magica di Andrea. (Guarda le foto)

Dopo la cerimonia, Andrea Belotti e Giorgia Duro hanno festeggiato amici e parenti a Villa Tasca, immersa nel verde con cucina sicula stellata. Tra gli oltre 150 invitati al party sfarzosissimo in stile 800, i colleghi di Andrea, Ciro Immobile e Davide Zappacosta, dolcemente acocmpagnati.

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Paola Perego torna in Rai

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È il manager e marito Lucio Presta a dare l'annuncio su Twitter del ritorno della moglie sul primo canale

Paola Perego torna su Rai1. Dopo il clamore, con successivo licenziamento, scatenato dal siparietto sulle donne dell'est, la conduttrice è pronta per rientrare dalla porta principale di Viale Mazzini.

Ad annunciare il ritorno della Perego in Rai è un tweet di Arcobaleno 3, la società di produzione e management di Lucio Presta, agente e marito della conduttrice. "Felici perché RaiUno ha scelto di riprendere il rapporto professionale con Paola Perego dopo un momento di 'straordinaria follia'". Basta polemiche dunque, la presentatrice torna al proprio posto.

La vicenda che ha portato all'allontanamento della Perego dalla televisione pubblica risale a qualche mese fa quando, durante una puntata di Parliamone Sabato, andò in scena un simparietto dal titolo "I motivi per scegliere una fidanzata dell'Est" e a seguire una serie di luoghi comuni di pessimo gusto. A farne le spese fu solo la Perego che venne ampiamente criticata anche dall'allora direttore della Rai, Antonio Campo Dall'Orto: "Gli errori si fanno, e le scuse sono doverose, ma non bastano - era il commento - occorre agire ed evolversi. La decisione di chiudere Parliamone Sabato non è infatti solo la semplice e necessaria reazione ai contenuti andati in onda lo scorso sabato, contenuti che contraddicono in maniera indiscutibile sia la mission del Servizio Pubblico che la linea editoriale che abbiamo indicato sin dall'inizio del mandato". Così la conduttrice venne cacciata. Ora però la Perego torna ma per sapere cosa farà si dovrà attendere un paio di settimane quando verranno svelati i palinsesti della prossima stagione Rai.

Anna Tatangelo confessa: "Con Gigi ci sono stati alti e bassi"

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Intervistata dal settimanale Chi, Anna Tatangelo ha parlato del suo rapporto con il cantante napoletano e ha risposto alle critiche che le sono state rivolte contro durante la conduzione de I migliori anni

Dopo settimane in cui si parla della presunta crisi tra Anna Tatangelo e Gigi D'Alessio, la cantante rompe il silenzio e ammette che nell'ultimo periodo hanno dovuto affrontare "degli alti e bassi".

Intervistata dal settimanale Chi, Anna Tatangelo è tornata su diversi temi e si è tolta anche qualche sassolino dalla scarpa. In primis la bellissima cantante ha voluto parlare del rapporto con il suo compagno Gigi D'Alessio. "Tra noi ci sono stati alti e bassi, non lo nascondo. Li abbiamo superati insieme, grazie al rispetto che ci lega e all'importanza del rapporto".

Da mesi, infatti, i rumors vogliono i due sul punto di lasciarsi. Colpa di un matrimonio che tarda ad arrivare e di qualche evento mondano disertato. La realtà - spiega la Tatangelo - è che, dopo dodici anni d'amore e un figlio insieme, tutto prosegue nel migliore dei modi, seppur con incidenti di percorso tipici di ogni storia d'amore.

"Ci sono state tante prove che abbiamo superato insieme - continua Anna Tatangelo -. Mi sono presa cura del mio uomo nei momenti difficili e non mi riferisco a quelle cazzate sui soldi che hanno ingigantito, parlo di quando una persona sta male dentro e tu vivi il suo dolore e te ne prendi una parte. Gigi ha perso le persone più importanti della sua vita e io sono diventata ancora di più un punto di riferimento come lui lo è per me".

Nella lunga intervista la cantante ne approfitta anche per replicare alle dure accuse che le sono arrivate durante la conduzione de I migliori anni. La Tatangelo, infatti, è stata presa di mira dal pubblico per il suo aspetto fisico, ma anche per i look sfoggiata in prima serata. "Ho un’età - dice - che mi dà una consapevolezza nuova, sono nel pieno della mia sensualità e della mia femminilità. Attaccare le donne dello spettacolo sul personale o sull’aspetto fisico, che magari è fonte di sofferenze e insicurezze, è bullismo, soprattutto perché se una conduttrice non ti piace puoi evitare di guardarla. Non sopporto quelli che dicono 'un personaggio pubblico deve accettare le critiche', perché dipende dalle critiche e da chi le fa. Se hai dei complessi non li devi far venire agli altri".

Lucas Peracchi torna ad attaccare Uomini e Donne

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L'ex tronista di Uomini e Donne è tornato ad infangare il programma di Maria De Filippi: "Secondo te chi va là cerca veramente la ragazza?"

Non è passato neanche un anno da quando Lucas Peracchi, ex tronista di Uomini e Donne,ha accusato la produzione del programma di Maria De Filippi di aver creato uno show finto.

Ma ora ci risiamo. L'ex tronista di Uomini e Donne, oggi fidanzato con Silvia Corrias, è ricaduto in tentazione. Dopo aver pubblicato una sua foto con la Corrias, gli utenti hanno iniziato a bombardarlo di commenti. E tra chi gli ha fatto i complimenti perché "siete una bellissima coppia" c'è anche chi lo ha attaccato prendendo di mira il suo modo di comportarsi.

Ma ecco che è arrivata la risposta pungente di Lucas Peracchi. "Non siamo in un'esterna qua... è vita vera", ha scritto Lucas. Subito i commenti hanno iniziato a moltiplicarsi, fino a che un utente gli ha risposto: "Forse per te che hai preso per il culo tutti nelle esterne che hai fatto. Ti ricordo che c'è gente che si è sposata e ha avuto figli. Quindi non sputtanare ogni volta che nei hai la possibilità il programma solo perché ne sei uscito malissimo. Ricordati che finché ti ha fatto comodo, lì seduto ci sei stato più che volentieri".

La replica di Peracchi, catturata dal profilo Instagram di GossipTv, non si è fatta attendere più di tanto e, come aveva già fatto in passato, la sua battuta è stata piuttosto velenosa. "Ma eri affianco a me? - scrive Lucas -. Hai partecipato? La mia era una battuta... Ho preso per il culo... E secondo te chi va là ci va per trovare la ragazza? Dai vai a guardare i cartoni animati".

Il commento di #LucasPeracchi che torna a parlare di #UominiEDonne. Voi, che ne pensate? #GossipTvOfficial

Un post condiviso da Gossip Tv (@gossiptvofficial) in data: 16 Giu 2017 alle ore 06:53 PDT

Selfie, De Martino: "La mamma di Belen al matrimonio piangeva perché mi stava per sposare"

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Nel corso dell'ultima puntata di Selfie - Le cose cambiano Belen Rodriguez e Stefano De Martino sono stati i protagonisti di un simpatico botta e risposta

L'ultima puntata di Selfie - Le cose cambianoè stata ricca di emozioni e di colpi di scena, ma è stata una delle ultime storie a far scatenare un simpatico botta e risposta tra Stefano De Martino e Belen Rdoriguez.

Anna ha chiesto l'intervento di Selfie per un cambio look drastico. La donna, infatti, deve prepararsi per il matrimonio della figlia, ma non ha né l'outif adatto né si sente pronta dal punto di vista estetico. Anna per questo chiede anche di poter subire un piccolo intervento al viso che le permetta di dare un senso di freschezza al suo viso.

Ad occuparsi del suo caso è Belen Rodriguez che in abito argentato è entrata in studio ammaliando tutti con la sua bellezza. Dopo il cambio look e il piccolo intervento, Anna ha ringraziato la produzione e Belen per il fantastico trattamento ricevuto. Ma proprio sul finale si è consumato un simpatico botta e risposta tra Belen Rodriguez e Stefano De Martino. Quando Simona Ventura ha fatto notare ad Anna che è pronta per il matrimonio della figlia, Iva Zanicchi le ha consigliato di osare, "sarà un giorno bellissimo e piangerai tantissimo". Ma proprio qui è scattata la battuta di De Martino.

"Tutte le mamme al matrimonio della figlia piangono perché si emozionano - dice Stefano De Martino -. Ma dovete sapere che la mamma di Belen al nostro matrimonio ha pianto perché si sposava con me". Subito tutto lo studio è scoppiato in una grossa risata e la Rodriguez ha negato tutto.

Per uscire da questa situazione un pochino imbarazzante, la showgirl ha esclamato: "Viva l'amore". Ma subito Simona Ventura ha colto la palla al balzo per lanciare una provocazione: "Evviva l'amore che viene, che va e che può tornare". Il riferimento è chiaramente a Stefano De Martino e Belen Rodriguez, tanto che quest'ultima è uscita dallo studio scuotendo la testa in segno di disappunto.

«VIVA» l'arte che accade come la vita

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Non so se nelle intenzioni dei curatori della 57esima Biennale, il titolo sia stato pensato per avere un doppio senso, come se l'arte debba essere festeggiata, o se per «VIVA» si intenda esistente, un qualcosa che cresce. Comunque sia, tutti e due i significati mi piacciono accostati alla parola arte. Ho visto quasi tutte le Biennali negli ultimi venti anni e quasi sempre mi sono divertito moltissimo.Di solito, quando comincio a passeggiare dentro ad ogni padiglione, cerco di lasciare che succeda qualcosa, che vedendo un'oper la mia mente venga catapultata in un' altra realtà dove tutto è possibile e dove ogni cosa ha la sua ragione di esistere. Ogni istante della Biennale lo vivo come un istante della mia vita. Ricordo con piacere di aver letto in un romanzo di Enrique Vila-Matas che una curatrice di arte contemporanea rivolgendosi al protagonista del romanzo in uno dei tanti dialoghi gli dice «L'arte fa e adesso cavatela da solo () adesso tutto dipende da te, stiamo un po' a vedere come te la cavi». L'arte accade come la vita. VIVA LA VITA.

Quando lo scatto narra l'identità

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Così Giuseppe Mastromatteo cerca se stesso attraverso gli altri

Barbara Silbe

Parlano di identità, le opere di Giuseppe Mastromatteo. E consegnano un mondo fatto di estetismo e suggestione che è difficile dimenticare. La sua riflessione parte da se stesso e finisce nei soggetti che ritrae, in un dialogo attraverso lo sguardo dove l'essenza e la persona sono in corrispondenza e al centro dell'attenzione. Lui, art director di una delle più importanti agenzie pubblicitarie del mondo, concentrato sulle esigenze del committente quando si tratta di quest'altra sua occupazione, da fotografo quotatissimo, libera e amplifica i pensieri verso una sintesi che gli serve a svelare se stesso.  Il suo ultimo progetto si intitola «Eyedentikit»: pubblicato inedito su EyesOpen! Magazine e parzialmente esposto al MIA lo scorso marzo, mostra la ricerca che conduce più dei suoi lavori precedenti. «I miei occhi sostituiscono quelli dei soggetti dice Mastromatteo - così annullo la distanza e trovo me in loro. In passato cercavo risultati più estetici, nella serie Indipensense c'era meno della mia natura più profonda. Qui invece ho intrapreso un percorso intimo, dove ho cercato di abbandonare il trattamento che apportavo un tempo. Ma avevo bisogno di evolvere, di sperimentare abbandonando la confort zone e non reiterare ciò che avevo già realizzato». Identità reali o proiezioni, che quindi si moltiplicano all'infinito? «Potrebbero; al momento le opere sono 36. Le persone sono mono-espressione, volevo annullare le emozioni realizzando scatti asciutti, teutonici. Mi è sempre risultato difficile farmi un autoritratto, ma i miei occhi dicono che cerco la mia identità. Trovo più interessante parlare attraverso gli altri». www.giuseppemastromatteo.com

Radiogiornale

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Mai sottovalutare la Rai. Ieri ha presentato cinque radio digitali dedicate ad altrettante tematiche diverse: Radio Classica (diretta da Maria Gabriella Ceracchi), Kids (Gianfranco Onofri), Live (bentornato Fabrizio Casinelli), Techetè (Andrea Borgnino) e Tutta italiana (nelle mani dell'espertissimo e autorevole Gianmaurizio Foderaro). Saranno ascoltabili via web attraverso le app, il Dtt e grazie ai protocolli Sat e, soprattutto, Dab+. L'obiettivo è chiaro: intercettare quella fascia di ascoltatori millennials (ma non solo) che ormai interagiscono con il mondo quasi esclusivamente grazie a logiche digitali. Il limite di tanti dirigenti in tante aziende di comunicazione è di sottovalutare l'impatto enorme e, in prospettiva, assoluto che questo tipo di pubblico/ascoltatore avrà nella definizione dei palinsesti del futuro prossimo venturo. Perciò ottima è l'iniziativa della Rai che il neo dg Mario Orfeo ha sintetizzato così parlando nella Sala A di via Asiago a Roma: «Nel sistema Rai la radio è un punto di riferimento chiave per il pubblico e la sfida digitale è centrale anche nel presente». Senza dubbio, l'iniziativa è un germoglio destinato a dare frutti ottimi. Ora deve dimostrare, specialmente nei canali che hanno più necessità di aggiornamento e contiguità con gli ascoltatori (non Techetè, per capirci), di saper rimanere centrale nella fruizione radiofonica con quella inarrestabile curiosità senza pregiudizi che ormai è decisiva nel dialogo con il pubblico. Le premesse, anche nei dirigenti, ci sono tutte e il successo è dietro l'angolo. Con l'inevitabile sorpresa di chi crede la Rai ormai fuori dal tempo.


Lacrime, sangue e depressione Ecco Churchill non solo eroe

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Lo statista britannico ancora al centro di due film biografici che mostrano i suoi lati deboli

Mentre si sfascia l'asse angloamericano, sul cui equilibrio si è retto il mondo occidentale del dopoguerra, e intanto che smorte figure di politici senza carisma occupano la scena, torna alla ribalta un leader significativo. È Winston Churchill, «il più grande inglese di tutti i tempi», per un sondaggio della BBC. Poche figure, nella storia recente, sono subito riconoscibili come quella di quest'uomo di stato nato a Woodstock il 30 novembre 1874. E la sua figura è così interessante, nel «vacuum» di uomini e idee, che cinema e tv l'hanno celebrata in dozzine di film e miniserie, descrivendo il «bulldog inglese» come un eroe del XX secolo. L'ultima opera celebrativa è Churchill, biopic di Jonathan Teplitzky nelle sale inglesi e Usa dai primi di giugno (da noi non c'è una data certa) -, che mette in luce l'aspetto privato di un uomo afflitto da una depressione che lui chiamava black dog, cane nero. Metafora così convincente da diventare termine tecnico.

Il film si ambienta nel giugno 1944, quando le forze Alleate si ammassano sulle coste meridionali inglesi, in vista dello sbarco in Normandia. In tale drammatico frangente, il primo ministro, interpretato dallo scozzese Brian Cox, pare combattuto: la sua tempra d'acciaio è logorata da anni di resistenza all'esercito nazista e dal ricordo delle disastrose conseguenze dello sbarco a Gallipoli, nel 1915, quando sotto il comando di Churchill morirono migliaia di soldati. Ci penserà la moglie Clementine (Miranda Richardson) a fargli ritrovare la forza per appoggiare il piano d'invasione della Francia. Mentre il generale Eisenhower (John Slattery) resta attonito di fronte ai frequenti cambi d'umore di Churchill, poco prima del D-day, Re Giorgio VI (James Purfoy) si lascia guidare dal suo primo ministro.

Lacrime, sangue e depressione di Sir Winston, lui stesso scrittore e sceneggiatore dei film prodotti da Alexander Korda nei Trenta. Come un biopic su Giorgio V, mai approdato sul grande schermo, o una sceneggiatura mai girata di Lawrence d'Arabia. A suffragio del fatto che Churchill sia un'icona pop, decollata nei Quaranta, quando rifiutò di assecondare Hitler, tenendo il famoso «discorso agli Inglesi» col quale preparava il blitz antinazista, c'è la questione del suo busto nello Studio Ovale, alla Casa Bianca: l'anno scorso l'ex-sindaco di Londra Boris Johnson, anche biografo di Churchill, ha attaccato Obama perché avrebbe rimosso il busto «per il suo ancestrale disgusto verso l'impero britannico». Ma nelle parole di Johnson circola un po' di verità, dato che il nome di Churchill è fortemente associato a quell'impero. In India, per esempio, Sir Winston è visto come fumo agli occhi perché acusato, nel 1943, di non aver aiutato durante una tremenda carestia nel Bengala. Milioni di indiani morti di fame e a una richiesta di cibo per l'India, Churchill rispose: «Se davvero il cibo è così scarso, per quale ragione Gandhi non è ancora morto?».

Eppure, quest'aristocratico che sbaragliò Hitler con l'operazione Overlord, nota come il D-day del 6 giugno 1944, si angosciava all'idea che migliaia di giovani potessero morire durante lo sbarco in Normandia. Tanto da scrivere alla moglie, la sera del 5 giugno: «Quando ti sveglierai, domattina, 20.000 giovani potranno essere uccisi». Temperamentale e sanguigno, Churchill premio Nobel per la Letteratura nel 1953, con i suoi scritti storici è al centro di un altro biopic di Joe Wright, Darkest Hour, ambientato nel 1940, quando egli divenne primo ministro dopo le dimissioni di Neville Chamberlain. In uscita a novembre negli Usa e a dicembre in Europa, ecco un altro ritratto dello stratega che prometteva di «battere i nazisti sulle spiagge». Due biopics in un anno magari riflettono un momento storico. Eppure Churchill, impersonato da Richard Burton, Brenton Gleeson, Timothy Spall, Albert Finney e Christian Slater, è apparso in un caricaturale film di Bollywood, Rangoon, in versione gay, mentre balla con Hitler su una carta geografica dell'Europa. Sta di fatto che Churchill fu davvero un personaggio, diventato famoso per essere fuggito dalla prigionia durante la guerra dei Boeri, in modo rocambolesco, alla Indiana Jones. Nel 1972 Richard Attenborough gli dedicò Young Winston, basandosi sui racconti di lui, che scelse personalmente lo sceneggiatore Carl Foreman, dopo averne apprezzato I cannoni di Navarone. Anche qui, emerge un giovane uomo vulnerabile, attento a evitare balconi e binari, perché tentato dal suicidio.

Lo spirito di un tempo che rimpiange certe atmosfere, affiora anche da Dunkirk, primo kolossal di guerra di Christopher Nolan (Inception, Interstellar e tre Batman), che ribadisce come il suo «non sia un film di guerra, ma una storia di sopravvivenza». Dal 31 agosto in sala, il film narra l'Operazione Dynamo, effettuata tra il 27 maggio e il 4 giugno 1940, che spostò le sorti della guerra in favore degli Alleati (ma secondo molti storici se Hitler in quella occasione avesse voluto affondare il colpo...). Meno nota della battaglia di Stalingrado, la battaglia di Francia vide l'evacuazione verso la Gran Bretagna di migliaia di soldati belgi, francesi e inglesi, bloccati sulle spiagge di Dunkerque dall'avanzata dell'esercito tedesco. «La storia anglosassone ha una pericolosa tendenza a mettere avanti i fatti d'arme dei britannici, passando sotto silenzio quelli dei francesi», spiega Nolan. Ed è polemica intorno al suo film, vietato ai minori non accompagnati: troppo sangue sulla spiaggia francese.

Umorismo e chitarre Così i Ramones hanno rotto gli schemi

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Il saggio di Rombes racconta come un solo disco ha cambiato la storia della musica

di Nicholas Rombes

Ramones è l'ultimo grande disco moderno, oppure il primo grande disco postmoderno. Ben consapevole della propria condizione di cultura pop, ha ciononostante delle aspirazioni per nulla ironiche a essere un'opera d'arte. Gli stessi Ramones (che hanno mantenuto immutata la loro immagine per quasi trent'anni in una cultura che dà importanza al cambiamento sopra ogni altra cosa) erano troppo seri e duraturi per essere liquidati come degli stupidi, ma troppo divertenti per essere accettati come «seri».

Mentre altri gruppi si autodistruggevano, sedotti dalla propria follia o dai simboli del successo, i Ramones sono rimasti fedeli al proprio ruolo di trovatori del punk e, per gran parte della loro carriera come gruppo, hanno prodotto un suono immutato, nonostante la rapida evoluzione delle mode. Erano profondamente consapevoli del lato oscuro della longevità: i Beatles, i Rolling Stones e gli Who fornivano tutti degli ottimi modelli di quale fosse la strada da non prendere, man mano che la potenza sconsiderata delle loro prime opere lasciava il passo all'autoindulgenza e agli eccessi che si perpetuavano da soli, segnalati da lunghe canzoni teatrali e concettuali e album il cui virtuosismo, sostanzialmente, pretendeva di essere venerato.

Ciò che assicurava che il primo album dei Ramones sarebbe diventato uno dei dischi più importanti del rock moderno era quella stessa qualità che garantiva che non avrebbero raggiunto il successo mainstream tra i loro contemporanei: una visione unitaria, la forza di un'unica idea. Ramones ha una purezza così travolgente da essere spaventosa. In pratica, i Ramones sono l'unico gruppo punk degli anni Settanta ad aver mantenuto tanto a lungo la propria visione, senza compromessi: una visione che era già espressa a pieno e completamente nel loro primissimo album. In America c'è forte scetticismo e diffidenza nei confronti di qualsiasi forma artistica e culturale che non si evolve, che non cresce. Non esiste critica più grave dell'accusa di ripetere se stessi. Eppure lo scopo del punk era proprio la ripetizione: la sua arte stava nel rifiuto dell'elaborazione. E questo non è mai così evidente quanto nel primo album dei Ramones, la cui simmetria tremenda e inflessibile annunciava l'arrivo di un suono talmente puro da non avere bisogno di cambiamento.

Il fatto che Ramones sia uscito nel 1976, l'anno in cui si celebrava il bicentenario dell'America e si ricordava la Dichiarazione di Indipendenza, è una di quelle interessanti coincidenze della storia. Mentre il punk soprattutto nelle sue incarnazioni degli anni Ottanta e Novanta è spesso associato con il dissenso anarchico e l'alienazione dal mainstream, nel movimento punk originale c'è anche una dimensione molto casalinga e nostalgica, soprattutto nella sua versione americana. Dopotutto, la filosofia del fai-da-te fa parte della tradizione americana, dall'epoca della Guerra d'Indipendenza all'appello alla fiducia in se stessi di Ralph Waldo Emerson. Certo, per farsi piacere la musica uno non aveva bisogno di sapere queste cose, e nemmeno di interessarsene; in un certo senso va contro lo spirito del punk analizzare troppo le sue fonti e le sue tradizioni. Ma una parte del fascino del punk incarnato dai Ramones nasceva da come riusciva ad attingere a questa tradizione americana di indipendenza e resistenza che aizza il piccolo individuo contro le forze dei grandi, e al tempo stesso a rifiutare la tradizione.

I particolari sulla produzione dell'album sono ormai leggenda: fu registrato in diciassette giorni nel febbraio del 1976, con una spesa di circa 6400 dollari. Sulle prime la procedura sembra il perfetto esempio di quell'etica fai-da-te, amatoriale e incosciente, che si associa al punk. In verità, però, i Ramones si accostarono alla registrazione in studio con un alto grado di preparazione e professionalità. Suonavano insieme già da circa due anni (nei quali vanno annoverati almeno settanta concerti dal vivo) e avevano già sviluppato pienamente il loro suono caratteristico. Avevano prodotto il proprio demo, scritto materiale a sufficienza per vari dischi, e riflettuto molto sulle sonorità che volevano ottenere nel loro primo album.

Prima di considerare i particolari sulla produzione dell'album, le sue canzoni, l'accoglienza riportata e l'influsso esercitato, è importante riesaminare il contesto dal quale sono nati i Ramones e il punk. Perché oggi il termine «punk» ha un significato molto diverso da quello che aveva a metà degli anni Settanta. Se oggi il termine è diventato una merce riconoscibile e bene accetta, trent'anni fa la parola «punk» era incredibilmente mutevole: le venivano collegati significati e segni di ogni tipo espressi su riviste, giornali, fanzine e cortometraggi che documentavano quello che allora stava diventando famoso come «punk rock».

Il punk era un atteggiamento che incarnava il rifiuto. Mentre il progressive, figliastro avvizzito degli anni Sessanta, era ancora radicato nell'affermazione e nell'assenso, il punk offriva la negazione e un sonoro «no». In Punking Out (1977), forse il miglior documentario sul giro del cbgb negli anni Settanta (e tra i pochi a usare il suono dal vivo invece del doppiaggio), chiedevano a una fan: «Che cos'è una generazione vuota?» E lei rispondeva: «Io sono vuota. Non c'è niente che entra. Non c'è niente che esce». I Ramones hanno intriso quel nulla e quel rifiuto di un umorismo spietato che trasportava il nichilismo nella sfera della cultura pop.

(C) Nicholas Rombes, 2005. This transalation is published by arrangement with Bloomsbury Publishing. - (C) minimum fax, 2017. Traduzione di Anna Mioni. Tutti i diritti riservati.

Così i poliziotti di strada sono diventati un cult

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Tornano i romanzi di Ed McBain, che 60 anni fa costruì un mondo che ispira molte storie di oggi

Se da oltre sessant'anni esiste un genere letterario come il police procedural lo si deve alla felice intuizione di uno scrittore italo americano come Salvatore Lombino, che nel 1956 decise di inaugurare la serie di storie da lui dedicate all'immaginario 87° Distretto. Romanzi che ci mostrano in azione in maniera corale un gruppo di poliziotti di varia estrazione, alle prese ogni volta con casi diversi e criminali di ogni sorta. Una varia umanità alla quale Lombino ha dato vita, sottolineando non solo i caratteri ma spesso anche le etnicità diverse. All'epoca lo scrittore aveva già assunto vari pseudonimi come quelli di Richard Marsten e Hunt Collins, ma era stato soprattutto il nome de plume Evan Hunter a cambiargli lo status di narratore, portandolo a siglare un superbestseller come Il seme della violenza.

Sarebbe stato facile sedersi sugli allori. E invece Lombino decise che era il momento giusto per trovare una strada nuova e, oltre a crearsi una nuova identità letteraria dietro la sigla di Ed McBain, affrontò con coraggio anche la costruzione di una nuova serie di romanzi che avrebbero avuto la caratteristica non solo di essere seriali, ma che avrebbero anche proposto ai lettori una pluralità di personaggi e non un singolo investigatore. Il banco di prova delle sue intuizioni fu il romanzo Odio gli sbirri, pubblicato nel 1956 e tradotto nella sua prima versione italiana con il titolo di L'assassino ha lasciato la firma. Ad esso avrebbero fatto seguito altre 55 storie, l'ultima delle quali Traditori, pubblicata postuma nel 2005. La casa editrice Einaudi ha deciso in questi giorni di ripubblicare quel romanzo e il successivo Fino alla morte (1959), affidando la presentazione di questi classici del poliziesco a Maurizio De Giovanni. Lo scrittore napoletano ha sempre dichiarato pubblicamente che le storie di Ed McBain gli hanno cambiato la vita e sono state la fonte primaria di ispirazione per il suo fortunato ciclo dei Bastardi di Pizzofalcone. E se nella prefazione a Odio gli sbirri il papà del Commissario Ricciardi racconta nello specifico come arrivò a scoprire sulle bancarelle i romanzi dello scrittore americano, nell'introduzione a Fino alla morte spiega invece il valore fondato delle storie dell'87° Distretto per la letteratura di suspense internazionale. «McBain costruisce la sua squadra sulla strada analizza De Giovanni ed è questa la grandissima intuizione. Persone normali, spesso persino antipatiche; gente che lavora e porta inevitabilmente il lavoro a casa, come porta al lavoro altrettanto inevitabilmente i problemi di casa. Tipi differenti, giovani e anziani, introversi e caciaroni, inclini alla violenza o in possesso di una pazienza immensa. Gente che cammina per chilometri senza fermarsi, che si apposta per ore, che interroga decine di persone, che percorre lunghe piste che non arrivano a niente o che si vede dal cielo soluzioni inaspettate. Gente umile, che cerca con difficoltà di arrivare a fine mese, che trascina sulle spalle sentimenti grandi e piccole fobie».

Odio gli sbirri e Fino alla morte sono da questo punto di vista due romanzi esemplari per comprendere il talento narrativo di McBain e la sua capacità di congegnare storie. Nel primo uno spietato killer fa strage di agenti di polizia mentre un caldo serrato soffoca l'immaginaria città americana in cui è ambientata la storia, un'afa terribile che in qualche modo acuisce la situazione disperata e opprimente delle vicende. Nel secondo libro per la prima volta vengono enucleate le vicende personali della famiglia del detective Steve Carrella, che il giorno delle nozze di sua sorella Angela scopre che il suo futuro sposo Tommy è un possibile candidato all'obitorio.

Rilette a distanza di anni le storie di McBain non sono affatto invecchiate, hanno ritmo e presentano caratteri e situazioni esemplari. Ed è stata felicissima l'intuizione dello scrittore di non identificare in maniera specifica i luoghi della sua narrazione, perché questo ha permesso di non datare in nessun modo la sua produzione. L'87° Distretto viene così piazzato a Isola, che come spiega Maurizio De Giovanni è un quartiere di una città immaginaria, per costruire il quale McBain decide di ruotare di novanta gradi la reale pianta di Manhattan: «Rinomina gli altri quartieri mantenendo vaghe assonanze, carpendone e descrivendone anime e identità... Non è la città in sé che è materia di narrazione ma il rapporto che gli abitanti hanno con essa, un luogo che accoglie e abbraccia come le fauci di un'orca assassina».

È morto John G. Avildsen, regista di "Rocky" e "Karate Kid"

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Il ricordo di Sylvester Stallone: "Riposa in pace. Sono sicuro che presto girerai grandi successi in paradiso. Grazie"

Si è spento a 81 anni il regista John G. Avildsen. Aveva diretto i film "Rocky" e "The Karate Kid". Avildsen, secondo quanto comunicato dal figlio Anthony, è morto ieri al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, a seguito di un cancro al pancreas. Nel 1976 aveva vinto il premio Oscar grazie alla celeberrima pellicola dedicata alla saga del pugile italoamericano, Rocky Balboa.

Interpretato da Sylvester Stallone, il boxeur italoamericano di Philadelphia è diventato sicuramente uno dei personaggi più noti della storia del cinema americano. Nel 1984, invece, era arrivato "The Karate Kid", la storia di un giovane atleta di arti marziali e del suo mentore. John Avildsen era nato nel 1935 a Oak Park, in Illinois.

Sia il film cult sul pugile interpretato da Stallone, che ha dato vita a una fortunatissima saga, sia l’inaspettato noomal box office "Karate Kid" ebbero un successo planetario. Dopo aver esordito nel 1970 con un film a basso costo, "Joe", tre anni dopo Avildsen con "Salvate la tigre" ricevette tre nomination ai premi Oscar, vincendone uno per il Miglior attore protagonista (Jack Lemmon).

Su Instagram Sylvester Stallone, che deve il successo della sua carriera proprio a "Rocky", ha scritto: "Riposa in pace. Sono sicuro che presto girerai grandi successi in paradiso. Grazie".

Rihanna super sexy alla Fondazione Vuitton

Miriam Leone: "Ecco perché ho lasciato la Rai"

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Miriam Leone si racconta e svela alcuni retroscena sul suo passato. L'attrice parla in un'intervista a Sette della sua esperienza in Rai

Miriam Leone si racconta e svela alcuni retroscena sul suo passato. L'attrice parla in un'intervista a Sette della sua esperienza in Rai prima del debutto sul piccolo schermo. Un'esperienza, quella in viale Mazzini che si è interrotta bruscamente segnando una svolta proprio nella carriera della Leone. In tanti si sono chiesti come mai avesse lasciato la Rai per approdare nel campo della recitazione nelle serie tv. E adesso è proprio lei a raccontare quello che è accaduto e come è maturata la sua scelta: "A un certo punto ho pensato che quelli non erano i miei panni. Che dovevo uscirne prima di diventare io stessa quel personaggio. Mi è stata data la grossa opportunità di lavorare in tv. Ci ho messo tutta me stessa, anche perché venivo dal nulla. Qualcuno mi ha pure suggerito di proseguire perché ‘un posto in Rai è come un vitalizio’. Ma alla fine ho rifiutato il contratto che mi avrebbe fatta restare lì". Poi ha aggiunto: "C’erano degli autori che mi guidavano, mi hanno insegnato molto. Era una tv fatta bene, ma a un certo punto mi sono sentita nel posto sbagliato. Un giorno, durante una diretta, ho avuto la sensazione che nessuno stesse dicendo quello che pensava veramente. Nemmeno io". Insomma la Leone ha ritrovato se stessa nei panni dell'attrice e il successo di 1992/1993 testimonia come la sua sia stata la scelta giusta.

Il film del weekend: " Una doppia verità"

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Un legal-thriller convenzionale, dotato di un buon cast e di qualche colpo di scena ma mai in grado di sorprendere fino in fondo

Keanu Reeves è protagonista, assieme ad un'irriconoscibile Renée Zellweger, di "Una doppia verità", noir processuale diretto da Courtney Hunt, già regista nel 2008 dell'acclamato "Frozen River - Fiume di Ghiaccio". La pellicola è godibile ma sembra arrivare sul grande schermo con qualche anno di ritardo: sa, infatti, di già visto.

Mike Lassiter (Gabriel Basso) è un diciassettenne accusato di aver ucciso il padre, avvocato di spicco a New Orleans (James Belushi). L'esito del processo è apparentemente già scritto perché il ragazzo ha ammesso la propria colpevolezza sulla scena del delitto, di fronte alla polizia e, da allora, si è chiuso in un ostinato silenzio. Si rifiuta di parlare perfino con il proprio difensore, Richard Ramsey (Keanu Reeves), amico di famiglia che ha promesso alla vedova, Loretta (Renée Zellweger), di ottenere la piena assoluzione del figlio.

Tutti mentono, avverte in una delle prime scene l’avvocato interpretato da Keanu Reeves. E' questo il mantra di un film la cui ambiguità include perfino la voce fuori campo. In un'opera narrativamente convenzionale, l'inaffidabilità dei protagonisti è una manna per fuggire l'atmosfera monocorde e il sentore di prevedibilità, qui particolarmente alto. Il problema è che "Una doppia verità" non ha assi nella manica: in mezzo ai tanti piccoli flashback evocati in sede processuale dalle parole dei testimoni, sono disseminati alcuni falsi indizi che conducono a depistaggi e a svolte improvvise ma mai davvero impreviste.

Nella ricostruzione a ritroso della sanguinosa vicenda, il film ha il pregio di non essere prolisso né noioso e di tenere desta l'attenzione dello spettatore. Eppure, forse in parte a causa della messinscena minimale o per la fissità recitativa di un Keanu Reeves algido come non mai, quello che manca è la tensione psicologica: durante gli interrogatori, tra verità dichiarate o presunte, non ci si sente mai sull'orlo della sedia, coinvolti emotivamente.

Lo script è curato nei minimi particolari ma suona come già esplorato nel campo della serialità televisiva degli ultimi anni. Non bastano intuizioni felici come quella di far vestire a Jim Belushi i panni di odioso padre padrone per dare una patina di originalità.


La Suzuki rompe il silenzio: "Non è vero che vogliamo allontanare Belen"

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Il settimanale diretto da Roberto Alessi aveva fatto sapere che il team Suzuki non voleva più Belen ai box di Iannone. Ora il team manager Davide Brivio dà la sua versione dei fatti sul caso

Da quando Novella 2000 ha pubblicato l'indiscrezione, non si fa altro che parlare di Belen nei box Suzuki, del suo comportamento e del fatto che non sarebbe più la benvenuta,

Il settimanale diretto da Roberto Alessi, infatti, solo due giorni fa scriveva: "Pare che qualcuno del team Suzuki ne abbia abbastanza della sua presenza nei box, soprattutto dopo la gara al Mugello. Qui la showgirl argentina si è presentata al circuito, in canotta e cortissimi jeans, con tutto il suo clan. Il fratello Jeremias e un gruppo di amici e amiche".

Ora a dare la sua versione dei fatti è la Suzuki, in particolare il team manager della scuderia di Andrea Iannone, Davide Brivio, che in un'intervista ai microfoni di Radio24 ha spiegato: "Ma vi sembra possibile che la Suzuki abbia chiesto di allontanare Belen Rodriguez dai box? Lo hanno scritto? E’ questo che mi preoccupa, è una cosa, ovviamente, assolutamente non vera e credo che nessuno ci abbia mai pensato anche perché, lasciatemi dire questo, quando è venuta alle gare è sempre stata molto discreta devo dire, a volte non l'ho vista per un giorno o due anche se era già lì".

Insomma, pare che la Suzuki non abbia nulla da recriminare a Belen Rodriguez e al suo fidanzato, anzi. Secondo il manager, la showgirl argentina può solo fare del bene al pilota."Quando è presente al circuito - continua il team manager - rispetta molto il lavoro che Andrea Iannone sta facendo. Magari la sera viene in ospitality a cena, ma di giorno, devo dire la verità, l’ho vista molto molto raramente nei box. E’ impossibile allontanarla perché nei box non viene molto spesso. Adesso si fa un gran parlare di Belen e di questa cosa, ma penso che questa storia possa portare solo serenità, di solito se uno è innamorato e sta bene è solo contento. Nel nostro lavoro non possiamo pensare a queste cose, le lasciamo ai giornali di gossip, noi dobbiamo pensare agli aspetti tecnici, sportivi ed è quello su cui stiamo lavorando".

Nel giorno delle nozze Sarah Nile ricorda il padre scomparso da poco

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La modella napoletana ha sposato l'imprenditore Pierluigi Montuoro e per il giorno più importante della sua vita ha voluto omaggiare il padre scomparso qualche settimana fa

Il fatidico giorno è arrivato per Sarah Nile, la modella napoletana ha sposato l'imprenditore Pierluigi Montuoro.

La ex concorrente del Grande Fratello ha voluto dedicare un pensiero al padre scomparso. Nel giorno più importante della sua vita per Sarah Nile non c'è solo spazio per i festeggiamenti, ma anche per i ricordi e la sofferenza. Il padre Ivan, infatti, è scomparso poche settimane fa, ma la sua assenza fisica verrà colmata dalla presenza spirituale.

Sarah Nile per ricordare il papà scomparso ha pubblicato sul suo profilo Instagram una loro vecchia conversazione. L'uomo si dice emozionato per la figlia e non vede l'ora di poterla vedere in abito bianco, "solo a vedere questi inviti mi emoziono tanto". Dopo questa immagine, la modella ha pubblicato poche e semplici parole, ma che sono ricche di significato: "Ci sarai tu accanto a me. Nell'aria, manchi, ti amo".

Le nozze di Sarah Nile sono blindatissime. La cerimonia è iniziata in tarda mattinata con il rito religioso presso la chiesa di Capodimonte (Napoli), per poi spostarsi nella zona flegrea, a Villa Sabella a Bacoli, dove i festeggiamenti andranno avanti fino a tarda notte.

... Ci sarai tu accanto a me . #nell'aria #manchi #tiamo

Un post condiviso da sarahnile (@sarahnile) in data: 16 Giu 2017 alle ore 14:51 PDT

La voce su Raoul Bova: "Una lite con Scamarcio"

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Una vera e propria sfuriata. Secondo quanto riporta Dagospia ci sarebbe stato uno scontro verbale tra Raoul Bova e Riccardo Scamarcio

Una vera e propria sfuriata. Secondo quanto riporta Dagospia ci sarebbe stato uno scontro verbale tra Raoul Bova e Riccardo Scamarcio. A far scattare la lite sarebbe stata la convocazione dei due attori per un provino per lo stesso ruolo per un film. I due si sarebbero incontrati negli uffici della casa di produzione del film e lì la scoperta: Bova avrebbe ricevuto il copione del film il giorno stesso, mentre Scamarcio tre giorni prima. Un vantaggio che gli ha permesso probabilmente di calarsi meglio nella parte da interpretare. Ma a questo punto sarebbe scattata la sfuriata di Bova che averbbe messo nel mirino l'incolpevole scamarcio e Cristiano Cucchini, storico agente dell'attore che ha interpretato il "Capitano Ultimo". Ma l'agente, sempre secondo quanto racconta Dagospia non avrebbe subito passivamente la sfuriata, avrebbe replicato duramente alle accusa di Bova ricordandogli quanto è stato importante per i suoi esordi e per il resto della sua carriera.

I «Promessi sposi» non passano mai di moda

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Applaudiamo il ritorno dei Promessi sposi nella smagliante edizione curata da Michele Sinisi. E non solo perché è uno spettacolo formalmente perfetto che sfida l'usura del tempo ma perché riproduce nel suo sinuoso andamento tutti i luoghi deputati del grande romanzo in un andamento pirotecnico che ce li restituisce vivi come non mai. C'erano già state altre tre edizioni, una cinematografica e due televisive a ricordarci i bei tempi che furono. Dal bel film di Mario Camerini, datato 1941, protagonista un giovanissimo Gino Cervi, fino alla versione in bianco e nero degli anni sessanta di Sandro Bolchi coi più grandi attori teatrali del tempo fino a quella coloratissima di Nocita con un super cast di nomi internazionali capitanati dal Don Abbondio di Alberto Sordi. Ma al di là di queste versioni a loro modo fantasmagoriche, che puntavano al kolossal formato famiglia, il revival dello spettacolo di Sinisi si raccomanda per la cura minuziosa dei dettagli e per l'andamento epico che non solo non tradisce ma semmai potenzia le vicissitudini e i personaggi manzoniani, conferendo loro un taglio, un'intensità da grande melodramma popolare. Si pensi, per fare un esempio, alla grande pagina dell'Addio ai monti coi protagonisti stipati nella barchetta che si muove sul palcoscenico come tirata dal filo invisibile della storia mentre davanti, dietro e tutt'intorno si agita il grande affresco della minaccia spagnolesca e violenta che agita la grande Storia. Un ritorno da vedere con attenzione e con gioia.

I PROMESSI SPOSI - Milano, teatro Sala Fontana

Beyoncé è di nuovo mamma: nati due gemelli

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Dalla coppia mai nessuna dichiarazione sull'argomento, dopo la rivelazione della stessa Beyoncé a febbraio quando aveva annunciato di essere incinta

La popstar americana Beyoncé, moglie del rapper Jay-Z, è di nuovo mamma. Secondo diversi media statunitensi, la cantante ha dato alla luce due gemelli. I due, lei 35 anni e lui 47, sono sposati dal 2008 e hanno già una figlia di 5 anni, Blue Ivy. Secondo il sito di informazione su musica e spettacoli "E!", la coppia è stata vista in ospedale giovedì scorso e venerdì circolava la foto di una donna con dei fiori e un biglietto in cui si vedeva la scritto "B + J", oltre a due palloncini con scritto "Femminuccia" e "Maschietto".

Il sesso dei due gemelli, prima della nascita non era mai stato rivelato. Il partoè stato con cesareo programmato. Dalla coppia mai nessuna dichiarazione sull'argomento, dopo la rivelazione della stessa Beyoncé a febbraio quando aveva annunciato di essere incinta.

"Vogliamo condividere il nostro amore e la nostra felicità. Siamo stati benedetti altre due volte. Siamo incredibilmente grati perché la nostra famiglia crescerà di due elementi e vi ringraziamo per gli auguri", aveva scritto la cantante sui social network anche a nome del marito. L'annuncio aveva messo fine alle indiscrezioni che volevano la coppia in crisi.

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